in copertina:
Ritratto di Tripoli eseguito dal filosofo francese Jean Guitton
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La fotografia di Tripoli:
tra passione e lavoro
Del suo lavoro non conosco eccezioni, ad ogni occasione di riprendere il quotidiano o sbrigare un “lavoro” fa riscontro una bella fotografia, un’immagine “umana”, il prodotto di un piacere.
Dopo tanti anni di lavoro “manuale” oggi è la sua mente che continua a programmare, inquadrare e idealmente a fotografare mantenendo viva una passione spesso rinverdita da altrettanti amici patiti della macchina fotografica che nel tempo, senza conoscersi, hanno condiviso la stessa scelta e gli stessi argomenti.
In Ameria una piccola associazione opera da molti anni nel documentare la vita quotidiana e nel raccogliere ciò che i pionieri dell’arte fotografica hanno testimoniato in passato, Tripoli, in Roma, è tutto questo messo insieme e non solo.
La sua fotografia, unica nel “fermare” il clima di una tranquilla vita di città velocemente scomparso, ha svolto un precursore e costante servizio sociale che non trova un eguale riscontro.
Ogni fotografia, nelle varie circostanze, è sempre rispettosa dei soggetti, ne è testimone ogni immagine: dall’offerta di un pasto caldo sul sagrato della Chiesa, ai bambini che giocano in Piazza Navona con il trenino dell’Epifania, dal solenne “notturno di S. Pietro” illuminato a candele al bimbo che in ospedale carezza il mento al Pontefice, dal frate che rifocilla i gatti randagi al cane che traina un carrettino, immagini di un passato prossimo colte con sensibilità non comune.
Quella di Tripoli è una fotografia pura che non ha mai avuto bisogno di accessori particolari per esprimersi oltre alla “buona macchina” e al “buon obiettivo” tutto in essa è dovuto allo spiccato coinvolgimento dell’Autore.
Oggi il Gruppo Ricerca Fotografica di Ameria ed il Foto Roma Club con questa pubblicazione colgono l’occasione per esternare il loro apprezzamento ad un maestro Fotografo che ha saputo trasformare il suo lavoro in una nobile arte.
Franco Della Rosa
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Roma tra donne felliniane e paparazzi.
Le immagini di Tripoli Benedetti.
Sciuscià, mettiti in posa
La città «minima», operosa, che soffre ma sorride,
e non vive solo in via Veneto e a fontana di Trevi o
a Cinecittà, ma dovunque, sul Gianicolo e al fosso di
sant’Agnese, a ponte Sisto o tra i binari morti
della Stazione Termini.
Il volto perduto della capitale nel dopoguerra.
Uno spaccato di varia umanità.
ROMA. Fra le immagini calligrafiche della «Roma sparita» di Pinelli e quelle trasgressive di paparazzi felliniani, esiste qualcosa che più di entrambe rispecchia la realtà. Una Roma dove l’umile si coniuga al maestoso: la Roma popolare, «minima», operosa, che magari soffre ma sorride, e vive non solo a via Veneto e a fontana di Trevi o a Cinecittà, ma dovunque, sul Gianicolo e al fosso di Sant’Agnese, sotto il cupolone e a porta Furba, ponte Sisto o tra i binari morti della vecchia stazione Termini, e distingue bene fra l’abbigliamento di tutti i giorni (oggi si direbbe casual) e il vestito buono della domenica.
In entrambi i casi si tratta di foto d’epoca e autentiche tutte: solo che quelle stile dolce vita sono l’eccezione, le altre sono la regola. Pazienza se oggi abrogata. Per ritrovare queste ultime abbiamo dovuto sfilare davanti a una serie di ingrandimenti delle fotografie di Tripoli Benedetti. Lui non avrebbe mai immaginato una mostra con i suoi scatti: invece eccola ospitata in due salette di un padiglione alla Fiera di Roma, e i curatori Riccardo Scoma e Paolo Boccalini non avrebbero faticato, con le foto a disposizione, a riempire spazi dieci volte più ampi. Cappotto di tweed e berretto alla Jovanotti, adesso, più che riguardarsi narcisisticamente quelle immagini, controllava l’espressione dei visitatori. Arzillo soprattutto nello sguardo con parecchi decenni di più sulle spalle, ma sempre spietatamente ammiccante, ci ha fatto fare all’improvviso un salto all’indietro di mezzo secolo. Rivedere una Roma che profuma di caldarroste e sferraglia con i tram nelle curve e nutrire forti (e facili) rimpianti. Personaggi singolari, piccoli artigiani ambulanti dai mestieri più strani, cocomerari ante litteram che non avevano ancora il tir parcheggiato a fianco; i romantici carretti «a vino» o quelli lunghissimi della Birra Peroni trainati da cavalli ciclopici; tre donnone con fagotti enormi di cicoria sulla testa quasi personaggi in libera uscita da un dipinto dei Macchiaioli, i primi patetici assedi del traffico attorno alla pedana (di legno) d’un pizzardone, e la scultrice mancata che si accontenta per un modesto compenso di rifare ai busti del Pincio i nasi mutilati dai (sempre esistiti) vandali; persino una colonia estiva di suore e bambini sul greto del Tevere senza sfidare la leptospirosi. E dietro le persone di città: una Roma davvero sparita, i monumenti non ancora anneriti dallo smog o nascosti dalle automobili, scorci di tetti senza l’affollamento delle antenne televisive, un albergo pi-nic fuori porta (con i primi esemplari, per la verità, degli odierni fagottari inquinanti).
Cronista attento (non ha mai scritto una riga sul giornale, ma ha insegnato il mestiere di giornalista a tanti di noi che, novizi, venivano inviati con lui dal capocronista sull’epicentro dei fatti), Tripolino faceva il suo lavoro con un senso disarmante della semplicità e dell’umiltà, salvo a realizzare anche piccoli capolavori di sintesi e di poesia, o magari a presentire e denunciare i primi casi di problemi oggi irrisolvibili. Era fedele nel fermare quelle immagini così come, passando dal fotografo al personaggio, sul piano del dialetto, era un interprete rispettoso e un (non tanto involontario) cultore del romanesco autentico, che nulla aveva «da spartì» col neodialetto di borgata, il linguaggio ufficiale, per intenderci, dei romanzi di Pasolini e dei film di Luigi Zampa. Lui risaliva per i rami a Gioacchino Belli (anzi Giovacchino, come puntualizzava, bofonchiando sempre contro le inesattezze della toponomastica ufficiale).
Nella mostra si riscopre la Roma vera degli anni a cavallo della guerra e della faticosa ricostruzione. La Roma delle pellicole neorealiste per rimanere alle metafore cinematografiche. Neppure tanto metafore, perché in quelle foto c’è la stessa luce, lo stesso fascino in bianco e nero di Sciuscià, di Vivere in pace, di Ladri di biciclette. Non a caso lui aveva una versione raccontata e tutta sua dei furbi del velocipede: un finto buontempone si avvicinava alla vittima che conversava con gli amici dopo aver poggiato la bici a un albero, dando le spalle al nuovo arrivato; questi con un gesto dell’indice del naso, invitava gli altri a stare al gioco, inforcava l’attrezzo e fuggiva. Non era uno scherzo. Oppure una ragazza a Villa Borghese si dimostrava tra mille moine un’esperta principiante al ciclista-corteggiatore che le metteva a disposizione la bicicletta e dava prova di una vera e (e interessata) pazienza nel farle da istruttore. Ignorava il giovanotto che lei era invece bravissima e una volta guadagnata la discesa verso piazza del Popolo si sarebbe allontanata per sempre, pedalando come un corridore professionista.
I lettori del nostro giornale, e ancor più quelli che a Roma, dal giorno della liberazione e per vent’anni esatti, leggevano il giornale cattolico di allora, Il Quotidiano, hanno avuto occasione di apprezzare il lavoro di un artista della fotografia. Lo volle il primo direttore del giornale, Igino Giordani, padre di Brando, l’attuale responsabile di Raiuno, a cui era stato segnalato da illustri «romanisti» (il celebre Ceccarius, il principe Brigante Colonna, Gigi Huetter) entusiasti di come il ragazzo sapeva raccontare la città con le immagini, e della verve con cui forniva talora piccanti didascalie parlate (e quasi recitando, lui che da bambino aveva avuto il compito di fare da contrappeso invisibile al sipario del Teatro Argentina nei momenti cruciali delle performances di Petrolini).
Era (usiamo il passato perché Tripolino ha smesso di lavorare da pochi mesi, a causa degli acciacchi che a 83 anni sono inevitabili) un osservatore straordinario, un vero psicologo; sapeva ricostruire personalità e caratteri al punto che a richiesta poteva imitare non solo personaggi illustri (uno dei suoi cavalli di battaglia era Vittorio Emanuele III di cui mimava la bassa statura camminando ginocchioni) ma anche persone appena conosciute e che avevano in qualche modo colpito la sua istrionica fantasia. A quei tempi i quotidiani non pubblicavano sistematicamente le vignette (che oggi - si dice - equivalgono a un articolo di fondo), ma lui aveva la stessa fantasia, la stessa ironia di un vignettista e in più l’eleganza che il bianconero custodiva con una patina di garbo e ammantava di un chiaroscuro pieno di eloquenza.
Virgilio Celletti
“Avvenire”, 13 marzo 1996
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Tripoli Benedetti
momenti di storie minime romane
(anni ‘40 - ‘60)
Tripoli Benedetti, socio del Gruppo Ricerca Fotografica, è nato a Roma nel 1912.
Fotografo giornalista professionista, è stato consigliere del “Sindacato Romano Fotografi Giornalisti”. Ha svolto la sua attività in molte città d’Europa e d’America, dove ha soggiornato per circa due anni, focalizzandone sia la vita che gli aspetti artistici. Fotografo di natura versatile, ha applicato la sua tecnica anche nel campo clinico chirurgico in diversi ospedali romani.
Data la sua ferrea conoscenza della città di Roma, ha collaborato con varie riviste specializzate al fianco di valenti scrittori romani come, ad esempio, Giuseppe Ceccarelli detto “Ceccarius”, il principe Brigante Colonna e Gigi Huetter.
Le macchine fotografiche da lui utilizzate sono state Leica, Rolleiflex, Mamiya, Nikon ed Asahi Pentax.
C’è chi ha definito la fotografia come archivio della memoria; Tripoli, invece, l’ha denominata con la sua tipica espressione: “documento di vita minima”, ritrovandosi coerentemente, al di fuori della sua attività di professionista, ad essere un “free-lance” con una filosofia basata su spontaneo reportage di immagini, che altro non sono se non una sequenza di eventi che si trascinano dietro gli attimi della vita che scorre.
Per poter cogliere questi momenti ci vuole indubbiamente uno spirito sensibile ed accorto, capace di sottolineare dei punti che, seppur non coinvolti in cronache eclatanti, di sicuro non peccano di ovvietà e non sono, al tempo stesso, artatamente precostituiti.
Ha condotto praticamente una ricerca informale ancorata ai valori degli umili, senza alcuna enfasi e con il pieno rispetto dei soggetti, riprodotti con integra dignità dalle sue fotografie.
Osservando le sue foto si percepiscono emozioni come se ci stessimo affacciando ad una finestra da cui è possibile scorgere un passato che ci appartiene; possiamo così rivivere atmosfere a noi familiari rendendoci conto, con una certa malinconia, che ci sono sfuggite silenziosamente nello spazio di pochi decenni, anche per l’effetto deleterio di un incalzante consumismo.
In questa occasione Tripoli ci ha presentato alcuni aspetti della vita romana collocati negli anni 1940-1960, ove figurano caratteristici personaggi permeati da scorci così tranquilli e godibili tanto da sembrare impossibile che si tratti della stessa Roma, attualmente resa alla stregua di una metropoli caotica ed invivibile.
Da poche settimane Tripoli ha lasciato definitivamente la sua attività di consulente fotografo.
Speriamo, comunque, che nella sua vita privata continui il suo affetto nei confronti della fotografia e di Roma, per continuare ad offrirci ulteriori brani di “vita minima” della città individuati con la competenza di autentico artista.
Paolo Boccalini
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Omaggio di un chirurgo,
saltuariamente fotografo, all’amico
Fotografo che ha saputo
far convivere scienza ed amore
Ho conosciuto Tripoli venticinque anni fa, nel 1971, mentre preparavo la mia tesi di laurea ed è stata amicizia ed affetto dal primo incontro.
Ero un ragazzino con l’hobby della fotografia, imbottito di tecnicismo e di know-how, convinto che non si potesse fare una buona foto senza l’ausilio di un mezzo moderno e sofisticato.
Tripoli mi ha insegnato che la fotografia è un prolungamento non dell’occhio dell’uomo, ma del suo cuore e della sua passione.
Ricordo le chiacchiere fatte con lui in ospedale quando le discussioni iniziavano sul come mettere in evidenza una particolare patologia e finivano regolarmente per andare al di là e diventavano suoi monologhi, difficilmente arrestabili, sulla storia della fotografia ospedaliera romana, delle manie dei vari luminari con cui aveva collaborato per culminare con aneddoti che solo lui, con la sua esperienza e il suo sottile umorismo alle volte un po' istrionico, sapeva raccontare. Che altro ci si poteva aspettare da uno che aveva lavorato a fianco di Petrolini?
Quando poi il nostro rapporto di amicizia si è consolidato ha cominciato a guidarmi tra le strade della vecchia roma, partendo da una foto, per spiegarmi un particolare, per farmi domande cui non sapevo rispondere e che gli fornivano l’occasione per parlarmi della vita e della storia della nostra città.
E così abbiamo parlato per venticinque anni tra una diapositiva di un bambino malato ed il bianconero di una città come era.
Chi scrive non ha visto le foto oggetto della mostra. Queste righe non vogliono essere un commento o un elogio alla tecnica o al contenuto di una iconografia che ciascuno potrà giudicare come meglio crede.
Queste poche parole vogliono solo essere la testimonianza di un affetto profondo per un vecchio e caro amico e di stimolo, per chi vorrà leggerle, a non cercare nelle foto di Tripoli la tecnica, ma il frutto del suo cuore in una irripetibile miscela di ironia, buonumore e tristezza.
Cosmoferruccio De Stefano
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Tripoli Benedetti in America (1939)
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Per Tripoli Benedetti
Queste poche parole vogliono essere un omaggio alla poesia visiva del fotografo Tripoli Benedetti.
Tripoli ha fissato nelle immagini fotografiche gli aspetti di “vita minima” che il cinema ci ha lasciato come neorealismo.
Solo una persona come Lui, con il suo accento romanesco e la sua vita lunga ed intensa, sarebbe stata in grado di fissare quella vita minima, semplice, umile e povera, in immagini di poesia, traducendo il suo mestiere di tecnico fotografico in un’arte.
Oggi, dopo anni di lavoro, possiamo apprezzare la vera parte del suo “vedere”: non la ripresa di una operazione o di un esito chirurgico, capacità che presuppone oggettività e freddezza d’interpretazione, ma ciò che quella oggettività ha lasciato, come opposto, maturare: la capacità di leggere, oltre il viso, l’atto, il gesto semplici, quasi meschini, la dignità della persona.
Ambienti, persone, cose vengono colti senza esaltarli né vittimizzarli, ma come sono realmente.
Quasi impercettibile è l’alta capacità tecnica che, altrimenti, non sarebbe stata in grado di produrre tanto.
Tripoli ha saputo cogliere l’aspetto poetico in quei fatti tanto semplici che all’epoca altri avrebbero nascosto.
Valeria Cerasi
settembre 1995
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Tripoli Benedetti
TRIPOLI BENEDETTI: nome stranissimo, meraviglia tutti, ma ciò che più meraviglia sono le sue foto. Chi scrive nasce come fotografo sin dalla tenera età di quindici anni e ora ne conta ormai cinquanta; questa nota biografica non del nostro amico non è fuori posto ma mi serve per capire la comune matrice tra i suoi metodi fotografici e il mio, i due stili sono talmente simili da provocarmi un brivido quanto ho visto per la prima volta le foto che poi ho avuto l’onore di selezionare per la mostra.
Ho cercato a lungo elementi comuni delle due culture così diverse, che per molti aspetti tra l’altro ci separano; ho cercato motivi tecnici che spesso assimilano maniere da lavorare in epoche diverse, ma poi alla fine ho capito: io e Tripoli ci siamo mossi con lo stesso amore per i soggetti che fotografavamo.
Oggi posso affermare che attraverso le sue immagini, che hanno l’aria di una facile documentazione di vita di una certa epoca, arriva però il profumo di un amore per i soggetti fotografati che ne permea tutto lo stile. Stile che non sembra però essere un vero stile dato che lui, come me e come tanti altri, non ha vissuto in giro per il mondo con la stessa intraprendenza di un Henry Cartier Bresson.
La storia della fotografia, come tutte le storie sono scritte dai grandi, ma chi le ha fatte sono i piccoli con i loro quadrucci quotidiani di momenti vissuti in un attimo di contrasti luminosi esteticamente interessanti a tutti e a nessuno, ma sempre storici..
Maurizio Gennaro
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Seguono 50 stupende immagini tratte tra le tante prodotte
da Tripoli Benedetti nella sua città – Roma.
1937 - ultima illuminazione con fiaccole di grasso
Isola Tiberina
Callarostara Nocciolinari
Fusaiaro Colonnato di san Pietro
Mendicante a Castel sant'Angelo Nonnetta
Pollaiolo
Villa Borghese santa Francesca Romana Piazza Navona
Porta Portese 1981 Papa Giovanni Paolo II
Vendita tabacco ricavato dalle "cicche" Barbieri improvvisati al fontanone
Scrivana nei pressi del carcere "Regina Coeli"
Salita del Gianicolo Garbatella
Cicoriare presso la Basilica di san Paolo
Il cardinale Roncalli in partenza per Venezia Mensa dei poveri davanti a san Bartolomeo all'Isola Tiberina
Carnevale a Borgo
Edito dal
GRUPPO RICERCA FOTOGRAFICA
FOTO ROMA CLUB
su concessione ed entusiastico assenso di
Tripoli Benedetti
Grafica Arch. Franco Della Rosa
Tipografia F.lli Petrosemolo S.n.c.
Novembre 1996
© Gruppo Ricerca Fotografica
TUTTI I DIRITTI DI RIPRODUZIONE SONO RISERVATI
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Apprezzato incontro a casa
dell'amico Tripoli nel maggio 1996
1912-1999
www.grupporicercafotografica.it
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